martedì 1 dicembre 2020

Paretimologie

C'è chi le chiama etimologie popolari, avete presente? Come quando si studia letteratura italiana e si legge che il cognome di Ugo Foscolo deriverebbe dalla parola greca per luce, phós, Ugo il "luminoso": in pratica si fa discendere il significato di una cosa o di un concetto dalla somiglianza col suono di un'altra parola, che indica cose o concetti diversi. Si chiamano paretimologie e nella letteratura classica erano un tópos utilizzato come vezzo fantasioso e dimostrazione di erudizione ironica e brillante, perché le etimologie così partorite erano completamente false, frutto dell'immaginazione raffinata dell'inventore.
In realtà il gusto per queste invenzioni sagaci è condiviso anche nella tradizione orale e popolare, nelle filastrocche, nei calambour, perché è divertente ingegnare la mente con questi giochi e lo facciamo sin da bambini, magari scherzando con la derivazione di nomi e cognomi nostri e dei nostri compagni di scuola.
Ricordo che anche il mio amato professore di italiano al liceo amava rapire la nostra attenzione di studenti con paretimologie che giurava fossero vere: per esempio, da buon napoletano sosteneva che Posillipo fosse il posto più bello del mondo, così bello che il nome stesso derivasse dalla potenza di quella bellezza e letteralmente significava "fa cessare il dolore", dal greco paùein lùpen. Devo confessare che non ho mai creduto fosse attendibile: che il prof. mi perdoni!

Tutte queste premesse per parlare di… calli.

I calli sono belli?

La prima risposta istintiva di tutti è sicuramente NO!

Mi è capitato però di soffermarmi a pensare ai calli sentendo le mani, mie e di chi mi sta vicino: mi sono accorta che pur non scrivendo con la penna a mano da anni, ancora sento la presenza del "callo della scrittura" sul dito medio destro. Non è un callo vero e proprio, ma è un ricordo di un'azione che facevo abitualmente a scuola, per quasi vent'anni dalle elementari agli appunti universitari. Come nella ricerca archeologica, nell'analisi stratigrafica di un elevato o di una superficie, si riconoscono i segni delle azioni rimaste sul terreno o sulla materia, sia quando portano un accumulo (le unità stratigrafiche positive come i riempimenti, i tamponamenti, le costruzioni, ma anche i crolli), sia quando invece rappresentano un'asportazione (le unità stratigrafiche negative o quelle scomparse come le buche, i degradi, le rimozioni), così il corpo umano lavora per accumulazione, ci mostra segni di attività ripetute e concretizza le abitudini della nostra vita.
Forse la "natura" è una somma, un accumulo, al contrario della "cultura" per cui, per esempio, ci viene consegnato l'ideale del lavoro dell'artista nel procedere a togliere e levigare, come ci racconta Michelangelo per gli scultori e la materia.
Anche la storia e il tempo del resto sono sovrapposizioni di strati, più o meno materiali, e il metodo archeologico è universale, forse anche nella lettura del nostro corpo.

Spesso i calli sono malattie professionali in nuce: sono movimenti ripetuti, ispessimenti da lavoro, di cui i nostri "vecchi" erano orgogliosi, perché erano la dimostrazione chiara dell'adattamento a qualcosa di nobile come il lavoro manuale e dell'apprendimento di una regola d'arte, senza necessità di altre prove; sono deformazioni e protezioni, cuscinetti per difenderci.
Le carezze più sincere che ricordi sono quelle di mani callose, mani che sanno fare cose e continuano a farle con cura e dedizione.

I calli si creano per il tentativo di condizionamento del nostro corpo, per il disagio che le nostre attività creano, per difenderci dal dolore, ma paradossalmente diventano fonte di fastidio e possono fare male anche quando la causa del dolore è scomparsa e non c'è più: si prendono la loro esistenza autonoma e la possibilità di dolere. Forse allora i calli sono la somatizzazione della mancanza, di una mancanza che fa ancora male per un po', ma che passerà.

Quindi i calli sono belli?

In questo senso la mia risposta è sì, sono belli (dal greco antico kalós!) perché rappresentano la risposta fisica del nostro corpo alle cose che ci mancano, che ci hanno dato identità per un periodo e resteranno con noi anche dopo la fine della ripetizione, fino a diventare un ricordo senza dolore, come il mio callo della scrittura.

mercoledì 25 novembre 2020

25 novembre: oggi parlo di me

Il 25 novembre, giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne (da parte degli uomini, bisognerebbe aggiungere), ho sempre partecipato a manifestazioni, eventi, cortei, così come l'8 marzo degli ultimi anni ho aderito volentieri allo sciopero transnazionale delle donne lanciato dal movimento Non Una di Meno.
Quest'anno 2020, segnato irrimediabilmente dalla pandemia da Covid19, sono ovviamente saltati i cortei fuori regione e si moltiplicano le assemblee on line, ma nella mia città ci sarà anche un presidio organizzato da Non Una di Meno nella giornata di sabato 28 novembre.
Ecco, in un anno così difficile per tutti noi, in questo post vorrei parlare semplicemente di me e della mia esperienza con la violenza di genere.

Premetto subito che fortunatamente non ho avuto esperienze negative gravi: non sono mai stata molestata o violentata e non ho mai subito mobbing o altre situazioni gravi in nessun contesto della mia vita, lavorativa, familiare o personale, quindi non ho la minima intenzione di paragonare la mia limitatissima esperienza alle storie di violenza fisica e psicologica che vengono affrontate da troppe donne ogni giorno.

Lo ripeto per chiarezza.

Ho avuto la fortuna di non dovermi confrontare con esperienze traumatiche serie, ma è stata solo fortuna. Caso.

Perché il contesto in cui ognuna di noi è cresciuta e vive ha offerto e offre decine di occasioni possibili, da cui a fatica riusciamo a sganciarci e spesso anche a riconoscere: io stessa ho il dubbio di essere stata vittima di stalking, pur pensando di essere dotata degli strumenti intellettuali e culturali adatti a distinguere le situazioni. Ed è la mia esperienza con le parole violente e con la violenza psicologica che oggi vorrei raccontare in questo post. Nulla di più.

Chi di noi non si è sentita etichettare in modo spiacevole per aver scelto una mise troppo corta o un trucco non leggero? Magari sono state le nostre madri in buona fede (cultura patriarcale di lunga durata sotto la buona fede…) a ricordarci che di noi si fidavano, ma degli altri no e che "essere provocanti" era un pericolo.

Quante volte ci siamo sentite dire che ce l'eravamo cercata: magari non la violenza fisica- si spera!- ma quella verbale sì, la rispostaccia, l'insulto, perché siamo state indisponenti contro un uomo, un capo maschio, un padre, un fratello… Perché noi donne dobbiamo essere morbide, accoglienti, abili nel far passare la nostra linea non in modo autoritario, ma con le armi della seduzione.
Ancora oggi odio questo luogo comune, per cui saremmo sedute sopra la nostra fortuna, dote che ci consentirà di essere le padrone indiscusse del mondo, facendo credere agli uomini di comandare… La logica della Bond Girl o della mitica Circe: sempre la stessa sbobba cucinata dalla letteratura degli uomini. Che tristezza!
La stessa logica per cui la donna entra gratis in discoteca e ha più facilità a trovare compagnia se è sola. Che grande tristezza!

Io non ho mai desiderato ammaliare o comandare nessun uomo, ma ho sempre desiderato di poter avere gli strumenti per elaborare opinioni mie e poi per farle valere a parità di trattamento. Ci ho creduto così tanto da fare anche scelte importanti nel mio percorso lavorativo, senza piegarmi nell'inchino al capo di turno e pagando tutto il conto senza sconti, ma la cosa che ho trovato più inaccettabile e violenta, soprattutto per il contesto in cui mi stava avvenendo, è che, quando è stato il momento di combattere le mie opinioni e le posizioni conseguenti, i miei avversari hanno tirato fuori il miglior repertorio del luogo comune nell'ambito della discriminazione di genere.
Hanno iniziato con i pettegolezzi, attribuendomi avventure sentimentali per cui sarei stata screditata, non so bene nemmeno perché, visto che non ci trovavamo tra le educande Orsoline (che dio le abbia in gloria, per carità).
Hanno continuato con il ritratto della seduttrice, l'ammaliatrice che con una sete di potere degna di Lady Macbeth non faceva che portare alla rovina tutti quelli che l'appoggiavano nell'ambiziosa ribellione all'ordine.
Hanno aggiunto la presunzione, l'inaffidabilità, l'incapacità di "stare in un'organizzazione", intendendo che gli equilibri e i ruoli attribuiti all'interno di un organo complesso sono umilmente accettati da ognuno dei componenti per il bene ultimo e supremo del tutto, deciso rigorosamente altrove e da altri. Come in un ordine religioso, dove regna il mondo della fede, o militare, dove invece sono ordine e disciplina a governare.

La sensazione era sempre la stessa: il potere procede dal maschio alla femmina e il mio ruolo era chiaro: a me spettava l'ubbidienza.

Nei momenti più acuti di quel conflitto, in cui più mantenevo mia posizione, più crescevano le pressioni, anche attraverso la discriminazione delle soluzioni possibili (agli uomini in gioco al mio fianco si facevano ripetute offerte migliori per farli desistere, mentre a me fu fatta una sola proposta di rimozione che non era certo una promozione) hanno aggiunto gli insulti, le calunnie, i profili psicologici improvvisati e non richiesti, le accuse di aggressività, la contestazione disciplinare, l'esternazione del fastidio attraverso le critiche sul modo di essere e non di pensare (cose assurde, a pensarci ora, come "non mi piace la tua voce", "devi abbassare il tono") o sull'emotività che c'era stata occasione di mostrare.

Una donna viene sempre screditata come manipolatrice, unica colpevole da condannare: una Medea dotata di calcolo e falsa empatia di cui gli uomini sono tutti vittime innocenti: fratello, uomo, figli che siano…

Non ho mai capito perché abbia subito per mesi e mesi tutta questa falsa narrazione, completamente al di fuori di ogni competizione politica o professionale accettabile. Non ho mai capito nemmeno perché anche in altre relazioni personali legate a questa vicenda più ampia, mi sia sentita ripetere per settimane infinite con decine di mail e messaggi provenienti da ogni piattaforma possibile e utilizzabile, spesso anche attraverso interventi indiretti su miei contatti amici, valanghe di accuse e calunnie di vario genere, ma soprattutto allusioni al suicidio e frasi come pietre che sono sicura facciano parte ingiustamente dell'esperienza di molte altre donne.

L'ho fatto per te.

Mi avrai sulla coscienza.

Un disegno di Eliana Como
per Riconquistiamo Tutto
Opposizione Cgil
Gli uomini violenti di questa piccola storia hanno poi bellamente assegnato il mio posto ad altre persone fedeli e gestibili, anche donne, o si sono salvati il culo grazie ad altri uomini solidali e agli stabili rapporti d'onore stretti tra loro.
Non li invidio e non mi pento delle mie scelte, anzi.
Molte donne che hanno assistito ad alcune vicende non hanno mai minimamente protestato per l'uso di pettegolezzi e argomenti maschilisti, ma spesso li hanno utilizzati loro stesse, facendosi strumenti della cultura che pensano di combattere ogni 25 novembre.
Molti altri e molte altre, invece, mai mi hanno fatto sentire sola e non hanno nemmeno minimamente pensato di chiedere se tutte quelle allusioni fossero vere.

Io ho imparato una cosa importante e semplice: quando un uomo utilizza alcuni argomenti contro una donna e si professa sua vittima usando alcune specifiche parole, come quelle che ho provato a descrivere in questo post, non ci devono essere dubbi su chi bisogna difendere e appoggiare. Dovrebbe essere questa la sorellanza.


martedì 24 novembre 2020

Signor Padrone

"Perché padrone fa troppo anni 70/80", mi hanno detto.

Ci hanno convinto che sia una parola d’antan, non adatta a rappresentare la realtà.

Grugliasco, 2019
Ci hanno detto che non siamo operai, salariati, proletari.
Ci hanno definito flessibili, elastici, smart e ci hanno detto che abbiamo in mano il nostro destino, ma vuol dire anche che se non riusciamo il problema è solo ed esclusivamente nostro: non siamo capaci, tenaci, all'altezza.
Ci hanno fatto notare che possiamo autointraprenderci. Imprenderci.
Insomma avete capito: l'impresa, l'imprenditoria, l'autoimprenditoria, l'auto.
Quello che ho capito io è che dobbiamo fare da soli senza rompere i maroni.

Però il padrone è rimasto lo stesso: ci sfrutta mentre noi pensiamo alla via di fuga. Si arricchisce mentre noi siamo poveri, part time o in cassa integrazione. Ci dirige con prepotenza e ci indica la via di uscita se il nostro "progetto" (altra fregatura il progetto professionale…) non coincide con la politica aziendale. Ci divide per evitare la solidarietà e le convergenze.

Finché sarò in un'azienda mutinazionale come subordinata, part time, povera, mi considererò salariata e il padrone lo chiamerò padrone.
E inseguirò sempre la via collettiva, perché alla salvezza individuale ci penseranno le religioni, non la pratica quotidiana.

A ognuno il suo.


PS. Questo post è stato scritto il 16 febbraio 2020 ed è rimasto in bozza per mesi.
Voglio dedicarlo a tutte le mie ex colleghe e colleghi che ancora devono fare i conti con il part time e la cassa integrazione Covid: fatevi forza, sempre, perché abbiamo ragione! 

martedì 14 aprile 2020

Clonatori o clonati?

Singapore 2019
Anni fa a cena da amici di amici romani, la coppia ospite prepara il mojito per la serata.

Passa un anno, sempre parecchi anni orsono, e mi capita di tornare da quegli amici di amici a cena: il padrone di casa prepara il caro mojito con la nuova fidanzata, unica variante della serata rispetto all’anno precedente, risotto pretenziosetto compreso.

Molti uomini sono dei clonatori: ripetere le stesse cose con donne diverse li rassicura, o forse proteggono bene le loro abitudini e i loro gusti e preferiscono tenere le partner come contorni passepartout, dal gusto delicato e adatto naturalmente per ogni piatto.

Forse. Magari presumo io.

Comunque, cari clonatori: provate a  cambiare voi, ogni tanto, o a variare le vostre abitudini, magari: non sarà la donna che avete accanto a farvi fare il vostro miglior mojitoNo?

domenica 5 aprile 2020

A proposito di Concetta Candido

A un paio d'anni di distanza, ripropongo un post a cui tengo molto e che avevo già pubblicato qui: una storia di disperazione e difficoltà, piuttosto attuale, oggi più che mai.

Un pensiero a Concetta e alle lavoratrici, oggi durante la crisi Covid19.


'Qualche mese fa sono riuscita finalmente a leggere il libro di Gad Lerner sulla storia di Concetta Iolanda Candido, che è tornata a casa qualche settimana fa dopo un ricovero di mesi nel sospiro di sollievo di una comunità intera, la stessa che lo scorso anno, nei giorni successivi al suo fatidico gesto allo sportello dell'Inps di Corso Giulio Cesare, l'aveva ignorata, sindacato compreso. Nella storia di Concetta ho trovato molto della mia esperienza quotidiana prima del rientro in azienda a maggio: Concetta è stata per anni una lavoratrice del settore multiservizi che anche io ho seguito in questi anni e il locale in cui lavorava è molto noto e applica il contratto collettivo dei pubblici esercizi, che anche ho avuto modo di seguire alla Filcams. Conosco il patronato, l'ufficio vertenze, i legali citati e tutto il contesto raccontato nel libro.
Sono rimasta molto colpita dal fatto che forse la tragedia di Concetta si sarebbe potuta evitare, se almeno una sigla sindacale avesse chiesto l'esame congiunto previsto dalla legge (l'articolo 47 della 428 del 1990), quando la sua azienda ha proceduto a riorganizzare la struttura col rientro in gestione diretta di gran parte dei dipendenti tranne il ramo pulizie, esplicitando la volontà di licenziare le 4 addette alle pulizie tra cui Concetta. Forse si sarebbe potuta contestare la procedura, chiedere che l'appaltatrice che ha poi preso in gestione il servizio di pulizie assumesse le lavoratrici già presenti, come è previsto dall'articolo 4 del contratto collettivo del multiservizi al cambio appalto, e in caso di rifiuto il sindacato avrebbe potuto chiudere con un mancato accordo e magari con una segnalazione all'Ispettorato del Lavoro.


Concetta Jolanda poteva essere una "mia iscritta", una delle delegate degli appalti che seguivo fino a pochi giorni fa, come Ada, Maria, Luciana, Mary, Stefania, Rosa e tutte le altre fantastiche donne che lavorano sodo per guadagnare troppo poco, ma fanno un lavoro essenziale di cui nessuno può fare a meno.
Poteva essere un'iscritta della Filcams a non aver ricevuto la Naspi in tempi decenti, perché la Naspi non è immediata, ha tempi lunghi e viene spesso rifiutata, non solo quando si è in malattia come Concetta, ma anche quando ci si dimette per giusta causa oppure quando si viene trasferiti.
Poteva essere un'iscritta della Filcams ad essere trasferita, esternalizzata, impoverita dai continui cambi di gestione e dai passaggi in cooperativa, fiaccata dalle condizioni salariali e materiali ai limiti della povertà: nel settore la media è di 15 ore a settimana di lavoro, con 3 ore al giorno per 5 giorni dalle 6 alle 9 del mattino o giù di lì, ma continui tagli delle ore negli anni, una paga oraria lorda di 7,21 € per livello e mansioni più diffuse e un contratto collettivo scaduto da 5 anni!
Concetta per me è diventata un simbolo al cui giudizio non riesco a sottrarmi: la sua fragilità è quella di un'intera porzione del mondo del lavoro, è la mia fragilità di lavoratrice part time della Grande Distribuzione.

Invece a Torino dopo il suo gesto estremo quasi con vergogna si è tirato avanti, perché l’understatement sabaudo non ama i gesti dimostrativi così disperati e tipici dei poveri del Sud del mondo (me li ricordo negli anni ‘80, quando ancora facevano notizia al TG1 delle 20 gli episodi di autoimmolazione col fuoco in Italia Meridionale, poi il nulla...), la città non ama ricordarsi delle periferie.
E la pietas? Non è sentimento signorile e nordico?
Lo slogan che usiamo tanto in questi mesi di tragedie dell'umanità e che condivido intimamente è restiamo umani (mi ricorda tanto quel classico homo sum, nihil humani mihi est alienum), ecco, oltre che uno slogan dovrebbe essere una prassi delle Organizzazioni al servizio delle donne e degli uomini e dei loro diritti: stare vicini agli esseri umani in questo momento storico è l'unico modo per tendere all'inclusione e all'estensione dei diritti e non solo alla conservazione dell’esistente.
Niente è peggio del professionismo senza sentimenti: quanti danni si fanno se si è persone e sindacalisti scadenti?

Forza Concetta!'

domenica 16 febbraio 2020

Reliquiario

Un libro di Amos Oz

Torino, 2018
Delle foto per il blog

La tua musica su I Tunes
- E due canzoni gonfie di prima e dopo-

I viaggi in Grecia, la nostra terra che era solo mia
Perché tu appartieni al maledetto Egitto

La tua macchina che non posso parcheggiare sulle strisce blu

Il piacere di Vasco dal vivo- ma ci portavi pure le tue ex, bastardo!

Anni di immagini.

I cactus ora ti sopravvivono.

Anche io.




domenica 9 febbraio 2020

Rarefazione

Grugliasco, 2019
Non amo i tempi dilatati, le pause di riflessione, il prendere tempo.
Nella rarefazione il raffreddamento. Il disinteresse.
L’abbandono?

Non ho bisogno di creare mancanza per capire di tenere a qualcuno.
E se basta così poco a creare i vuoti, allora era sostanza volatile. Puf!
Soffi o aliti?

Alla rarefazione possono resistere solo legami forti, il resto è passatempo. Perditempo.

Clausole di raffreddamento?
No, grazie!