Non ho mai amato la città di Bologna. Purtroppo.
Non mi ha mai provocato antipatia immotivata e istintiva come altri posti al mondo (avete presente la sensazione? Credo si chiami idiosincrasia), ma non è riuscita mai a conquistarmi, nonostante il cibo ottimo e la popolazione accogliente, credo.
Negli anni sindacali ci sono andata spesso, in giornata oppure per brevi soggiorni e alla Camera del Lavoro di Bologna ho seguito vertenze per aziende di tutti i tipi: Mercatone, Esselunga, H&M... Effettivamente è in posizione logisticamente mediana e quindi perfetta per organizzare riunioni sindacali di livello nazionale e questo è un pregio importante. A Bologna non ho mai trovato delle condizioni meteo ideali: d'inverno sempre troppo fredda e con la neve anche quando il nord ovest non era imbiancato; in Primavera spesso bagnata dalla pioggia e d'estate sempre fiaccata da un caldo soffocante. Un caldo così insopportabile lo ricordo solo d'agosto a Firenze, e dire che vivo a Torino da anni e lo shock dell'abbandono del mare l'ho superato da tempo...
Credo che questa mia superficiale avversione per Bologna derivi dagli anni del dottorato. Era il 2004, mi ero laureata a novembre dell'anno prima con un po' di ritardo, perché il mio professore aveva una cura maniacale per dettagli inutili e aveva rimandato la discussione della mia tesi di un paio di mesi, non ricordo nemmeno più per quale motivo. La tesi era una raccolta molto consistente di epigrafi funerarie romane provenienti dalla Liguria e presentava una rielaborazione dei dati tipologici e cronologici, ci stavo lavorando da un anno intero. Lo slittamento di quei pochi mesi mi aveva fatto saltare tutte le sessioni di ammissione ai vari post laurea, dottorati o scuole di specializzazione che fossero, e avevo dovuto quindi rimandare ancora di un altro anno i tentativi di iniziare una carriera accademica.
Nel frattempo ho fatto tante cose, per carità: ho studiato, pubblicato, scavato, dato lezioni di latino, partecipato a convegni, cercato e provato lavoretti improbabili (commessa, receptionist) e altro ancora. Avevo 24 anni, potevo permettermelo!
Poi finalmente mi era stato dato il permesso (non sto scherzando, questi erano i termini della questione: il mio relatore aveva chiesto il permesso di "inviare studenti") a partecipare all'esame per il dottorato di ricerca in storia antica a Bologna. Il professore considerava la mia presenza a quella selezione un onore e un favore che avremmo dovuto onorare, perché dopo decenni ero la prima laureata genovese a "poter" accedere al dottorato bolognese: le due scuole avevano lottato e si erano scontrate per anni, di fatto utilizzando i fondi pubblici dei concorsi universitari per le loro guerre intestine. Perché in fondo quando si parla di baronati si parla di questo: speciali conventicole culturali che non selezionano i migliori per la ricerca, ma i più fedeli, nel solco di una tradizione centenaria nel nostro Paese e non certo relegata agli ambienti universitari.
Sapevo tutte queste cose quando sono andata a Bologna per la selezione, avevo studiato e mi ero preparata molto e speravo che comunque potessero prevalere i più bravi, insomma speravo nella giustizia del sistema.
Che donna ingenua, allora come ora!
Delle tre prove scritte scelsi il tema di storia romana incentrato sulla Germania di Tacito, con commento dell'iscrizione funeraria di un soldato morto in quella stessa occasione, che tra l'altro era fisicamente presente in copia nella sala del dipartimento di via Zamboni dove stavamo sostenendo la prova. Da archeologa ed epigrafista mi ero molto soffermata sulla fonte materiale e decisamente meno su quella storiografica, tanto che all'orale la commissione si era stupita del livello di analisi che avevo mostrato. Per farla breve dei due posti con borsa di studio disponibili (circa 1000 euro al mese a quei tempi), ovviamente ero la terza classificata, ma la prima dei due possibili candidati senza borsa che avrebbe dovuto pure pagarsi le tasse universitarie che ammontavano a 600 euro l'anno: che fortuna! I due vincitori erano ovviamente bolognesi e avevano scelto prove esclusivamente letterarie e non storiografiche o archeologiche, ma soprattutto avevano proposto progetti di ricerca triennali piuttosto limitati e ridicoli ai miei rigorosissimi occhi: uno voleva sondare il concetto di eroe nella storiografia greca (ma?!); l'altra si sarebbe occupata di una formula che si ritrova nelle epigrafi sepolcrali su cui aveva scritto un solo storico in tutta la bibliografia esistente e poi... io nella mia tesi di laurea dell'anno precedente.
Invece il progetto di ricerca proposto da me avrebbe compreso di sicuro quello della mia competitor, ma lei aveva il doppio cognome, come l'altro vincitore del resto, mentre io facevo l'archeologa mercenaria nei cantieri del nord Italia.
L'ostilità che trovai nel corso di dottorato bolognese aumentò progressivamente: i seminari da frequentare obbligatoriamente per il primo anno si tenevano a Padova, università consorziata, e di solito prevedevano pure e semplici marchette al prof. di turno, amico o superiore della mia relatrice di dottorato, e la nostra presenza doveva riempire la sala per la lectio magistralis di tizio o il convegno di caio, senza alcun nesso coi progetti di ricerca di nessuno di noi. Peccato che io non fossi proprio nella condizione economica di seguire gratuitamente quel tipo di eventi ed ero pure fuori sede!
Dopo il primo anno così, tra alti e bassi e tanta demotivazione, ma continuando a lavorare sulla mia tesi di dottorato, decisi finalmente di mandare tutti a quel paese un bel giorno in cui la mia collega di dottorato con borsa, che più volte mi aveva manifestato la propria perplessità per il tipo di lavoro che descrivevo nei cantieri archeologici, mi aveva intrattenuto per molti minuti raccontandomi dell'impegnativa scelta del divano di pelle bianca per la casa nuova regalatale dal padre.
Ecco, era troppo. Ho lasciato il dottorato pochi mesi dopo: la coscienza di classe è tutto.
Forse Bologna è una regola, come canta Luca Carboni, e con le regole non ho ancora imparato a fare i conti.
Non mi ha mai provocato antipatia immotivata e istintiva come altri posti al mondo (avete presente la sensazione? Credo si chiami idiosincrasia), ma non è riuscita mai a conquistarmi, nonostante il cibo ottimo e la popolazione accogliente, credo.
Negli anni sindacali ci sono andata spesso, in giornata oppure per brevi soggiorni e alla Camera del Lavoro di Bologna ho seguito vertenze per aziende di tutti i tipi: Mercatone, Esselunga, H&M... Effettivamente è in posizione logisticamente mediana e quindi perfetta per organizzare riunioni sindacali di livello nazionale e questo è un pregio importante. A Bologna non ho mai trovato delle condizioni meteo ideali: d'inverno sempre troppo fredda e con la neve anche quando il nord ovest non era imbiancato; in Primavera spesso bagnata dalla pioggia e d'estate sempre fiaccata da un caldo soffocante. Un caldo così insopportabile lo ricordo solo d'agosto a Firenze, e dire che vivo a Torino da anni e lo shock dell'abbandono del mare l'ho superato da tempo...
| Savona, 2005 |
Nel frattempo ho fatto tante cose, per carità: ho studiato, pubblicato, scavato, dato lezioni di latino, partecipato a convegni, cercato e provato lavoretti improbabili (commessa, receptionist) e altro ancora. Avevo 24 anni, potevo permettermelo!
Poi finalmente mi era stato dato il permesso (non sto scherzando, questi erano i termini della questione: il mio relatore aveva chiesto il permesso di "inviare studenti") a partecipare all'esame per il dottorato di ricerca in storia antica a Bologna. Il professore considerava la mia presenza a quella selezione un onore e un favore che avremmo dovuto onorare, perché dopo decenni ero la prima laureata genovese a "poter" accedere al dottorato bolognese: le due scuole avevano lottato e si erano scontrate per anni, di fatto utilizzando i fondi pubblici dei concorsi universitari per le loro guerre intestine. Perché in fondo quando si parla di baronati si parla di questo: speciali conventicole culturali che non selezionano i migliori per la ricerca, ma i più fedeli, nel solco di una tradizione centenaria nel nostro Paese e non certo relegata agli ambienti universitari.
Sapevo tutte queste cose quando sono andata a Bologna per la selezione, avevo studiato e mi ero preparata molto e speravo che comunque potessero prevalere i più bravi, insomma speravo nella giustizia del sistema.
Che donna ingenua, allora come ora!
Delle tre prove scritte scelsi il tema di storia romana incentrato sulla Germania di Tacito, con commento dell'iscrizione funeraria di un soldato morto in quella stessa occasione, che tra l'altro era fisicamente presente in copia nella sala del dipartimento di via Zamboni dove stavamo sostenendo la prova. Da archeologa ed epigrafista mi ero molto soffermata sulla fonte materiale e decisamente meno su quella storiografica, tanto che all'orale la commissione si era stupita del livello di analisi che avevo mostrato. Per farla breve dei due posti con borsa di studio disponibili (circa 1000 euro al mese a quei tempi), ovviamente ero la terza classificata, ma la prima dei due possibili candidati senza borsa che avrebbe dovuto pure pagarsi le tasse universitarie che ammontavano a 600 euro l'anno: che fortuna! I due vincitori erano ovviamente bolognesi e avevano scelto prove esclusivamente letterarie e non storiografiche o archeologiche, ma soprattutto avevano proposto progetti di ricerca triennali piuttosto limitati e ridicoli ai miei rigorosissimi occhi: uno voleva sondare il concetto di eroe nella storiografia greca (ma?!); l'altra si sarebbe occupata di una formula che si ritrova nelle epigrafi sepolcrali su cui aveva scritto un solo storico in tutta la bibliografia esistente e poi... io nella mia tesi di laurea dell'anno precedente.
Invece il progetto di ricerca proposto da me avrebbe compreso di sicuro quello della mia competitor, ma lei aveva il doppio cognome, come l'altro vincitore del resto, mentre io facevo l'archeologa mercenaria nei cantieri del nord Italia.
L'ostilità che trovai nel corso di dottorato bolognese aumentò progressivamente: i seminari da frequentare obbligatoriamente per il primo anno si tenevano a Padova, università consorziata, e di solito prevedevano pure e semplici marchette al prof. di turno, amico o superiore della mia relatrice di dottorato, e la nostra presenza doveva riempire la sala per la lectio magistralis di tizio o il convegno di caio, senza alcun nesso coi progetti di ricerca di nessuno di noi. Peccato che io non fossi proprio nella condizione economica di seguire gratuitamente quel tipo di eventi ed ero pure fuori sede!
Dopo il primo anno così, tra alti e bassi e tanta demotivazione, ma continuando a lavorare sulla mia tesi di dottorato, decisi finalmente di mandare tutti a quel paese un bel giorno in cui la mia collega di dottorato con borsa, che più volte mi aveva manifestato la propria perplessità per il tipo di lavoro che descrivevo nei cantieri archeologici, mi aveva intrattenuto per molti minuti raccontandomi dell'impegnativa scelta del divano di pelle bianca per la casa nuova regalatale dal padre.
Ecco, era troppo. Ho lasciato il dottorato pochi mesi dopo: la coscienza di classe è tutto.
Forse Bologna è una regola, come canta Luca Carboni, e con le regole non ho ancora imparato a fare i conti.
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