lunedì 12 ottobre 2015

Il lavoro e la casta

Ho iniziato a lavorare nella grande distribuzione come commessa dieci anni fa, per mantenermi durante il periodo di dottorato senza borsa di studio.
La prima stagione di tre mesi doveva terminare lì: classico lavoretto da studenti tra una collaborazione a progetto e una consulenza occasionale nell'ambito archeologico che avevo scelto.

Sono stata fortunata, a ventisei anni passare ancora per studentessa poteva essere un problema. E addio assunzione!

Da quel primo contratto part time a tempo determinato la mia quotidianità è cambiata radicalmente: è seguito un al

tro periodo di tre mesi e poi un'assunzione con formula di inserimento per diciotto mesi.
Verso la fine di quel rapporto di lavoro a più lungo termine ho addirittura sperato di non venire confermata: sapevo che non avrei più potuto fare la ricercatrice precaria dopo aver visto il lavoro "normale".

Invece è arrivata la conferma: contratto di lavoro a tempo parziale e indeterminato. "Elastica e flessibile", ovviamente, dal lunedì al sabato (a quei tempi le aperture domenicali e festive non erano la norma come ora).

Indeterminato vuol dire poter accendere prestiti e rate, avere una busta paga presentabile quando si affitta casa, ma soprattutto… iscriversi al sindacato!

Finalmente!

Per me che non ho mai avuto una tessera di partito- cresciuta come sono in piena epoca del biscione e della disgregazione dei partiti- avere quella del sindacato era una meta agognata da anni: il minimo di partecipazione e impegno necessari!

Sono iscritta alla Cgil da allora, troppo poco secondo qualcuno per cui il cursus honorum è tutto; impossibile farlo prima per motivi anche troppo ovvi, secondo me.
Sono stata per parecchi mesi l'unica iscritta nel centinaio di dipendenti del mio negozio: ero così convinta che a Torino- dove tutti i miei colleghi avevano almeno un parente o un amico impiegato nella fabbrica torinese per eccellenza-  tutti i lavoratori fossero iscritti al sindacato da non aver nemmeno verificato che fosse così.

Che ingenua!
L'incoscienza paga, a volte. Da allora è iniziata un'avventura fantastica che ha spazzato via quasi tutto quello che ero.

Rivoluzione, che bella parola.

Ingenuità, altra bella parola: in senso letterale latino significa "nato libero".

La rivoluzione forse va di pari passo con l'ingenuità. 

2 commenti:

Elena ha detto...

Cara Isa, io mi ricordo di quanto da sola eri iscritta al sindacato e venivamo a parlarti mischiandoci contro i clienti. Non c'è un tempo per la coerenza ne per la partecipazione se non quello che passa e lascia addosso stanchezza, routine e indifferenza. Ma non è il tuo caso. Rivoluzione, una bella parola, bella da vivere, bella da sognare. Un abbraccio

Isabella Liguori ha detto...

Cara Elena, mi ricordo bene e tu sei stata parte fondamentale dell'inizio della mia avventura.
Ho questo vizio di non accontentarmi solo di sognare: i sogni collettivi si avverano! Un bacio!