La mia generazione, ormai inesorabilmente di quaranta- cinquantenni, è stata spesso definita come quella degli esclusi, una generazione "fuori": fuori dal boom economico e dalla concezione del posto fisso (o piuttosto dalla possibilità di ottenerlo e cambiarlo); fuori dai percorsi di progressione, ma anche banalmente dalla stabilità e dalla progettazione che ne derivano; fuori dagli interventi dell'stituto previdenziale nazionale, se è vero che chi è nato dal 1980 in poi non potrà beneficiare di alcuna forma pensionistica così come l'abbiamo conosciuta finora; fuori dal turn over di un certo rango di prestigiosi dirigenti nella pubblica amministrazione, in politica, nelle aziende, radicato, sicuro e inamovibile nei posti di lavoro e nella società civile.
Stampa e opinione pubblica negli ultimi venti anni anni hanno spesso attribuito le responsabilità di questo "tappo" sociale nel normale ricambio tra generazioni proprio a noi, ex giovani troppo pigri, molli, incompetenti e incapaci di far valere le proprie capacità- qualora esistenti- oppure al contrario talmente arroganti da credere di poter rottamare i predecessori solo per la legge del tempo.
Di solito a queste accuse ci siamo sempre compostamente difesi accusando i nostri "padri" di non aver lasciato risorse per noi, oppure abbiamo cercato nel contesto della globalizzazione e della precarizzazione del lavoro le cause immutabili della nostra condizione.
Sappiamo da dove arriviamo, ma non sappiamo assolutamente dove andiamo: credo che sia stato questo il dramma che abbiamo interiorizzato senza contestarlo davvero e che ha accomunato molti di noi, senza voler generalizzare troppo.
Abbiamo studiato nell'illusione di poter "elevare" competenze e opportunità rispetto ai nostri genitori, ma davanti al bivio tra aspettare il nostro spazio o andarcene siamo stati precari per anni provando a fare il lavoro "dei nostri sogni", che in realtà non era altro che quello per cui una comunità intera ci aveva formato, mica roba così strana: in fondo a chi finisce un percorso di studi in medicina non si rimprovera di voler fare il medico e non altro, no?
Prendiamo me: dopo il diploma mi sono iscritta al corso di laurea in Conservazione dei Beni Culturali e mi sono innamorata della ricerca archeologica. Era la fine degli anni '90 ed era opinione comune che quel macro settore dovesse essere la nuova chiave di valorizzazione del patrimonio italiano (ecco, mi pento solo di una cosa rispetto alla mia formazione: avrei dovuto prendere una "banalissima" laurea in lettere classiche, senza cedere alle mode del bene culturale!); purtroppo sappiamo ancora oggi che gli investimenti pubblici nella conservazione, valorizzazione e studio del nostro patrimonio artistico, archeologico e paesaggistico non sono degni di un Paese della Vecchia Europa e che quindi il riconoscimento e la qualità del lavoro che si offre a chi opera in quei settori non è minimamente all'altezza delle competenze e professionalità necessarie. Per i primi anni ho accettato ogni genere di contratto di collaborazione e volontariato: ho fatto la gavetta, aspettando il momento giusto, i contatti, l'occasione, le relazioni e anche aspettando di essere pronta, ma le proposte decenti non arrivavano mai. C'era sempre un lavoro gratuito- ossimoro odioso!- da fare, o qualcuno da cui farsi conoscere...
In 10 anni di attività, durante e dopo la laurea, ho visto un solo concorso al Ministero dei Beni Culturali per posizioni che non fossero i cosiddetti custodi nei musei (poi esternalizzati pure quelli a società private al ribasso) e nessun progetto a lungo termine che non fosse legato a percorsi precari come la ricerca universitaria. Per questo a un certo punto ho dovuto far quadrare i mei conti, sapendo di non avere sponsor o famiglie bene alle spalle e come altri miei coetanei ho dovuto scegliere se andare via o restare.
Io sono una che resta, ho trovato un lavoro "sottomansionato" rispetto alla mia formazione e alla lunga ho deciso di lasciare andare un percorso e inventarne un altro, quello sindacale, dove peraltro si sono ripresentate alcune ricorrenze: il "tappo" generazionale, l'ubbidienza, la lesa maestà, la scarsa propensione a realizzare luoghi e occasioni liberi e orizzontali, non verticistici e autoritari. Ma per ogni ex giovane o giovane formato che abbandona il suo campo di azione e ricerca, non stiamo solo creando sacche di rabbia e frustrazione individuali, stiamo sprecando un patrimonio comune.
Rifiutati da istituzioni come università e sindacato, non ci resta che chiederci: cosa avremmo potuto fare? Cosa possiamo fare?
Io sono una che resta- in Italia, nel sindacato, al lavoro che ho trovato per mantenermi- e cerco nell'unica chiave della dimensione collettiva un mimimo di riposo: perchè allora faccio ancora così tanta fatica?
| Ventimiglia, 2017 |
Di solito a queste accuse ci siamo sempre compostamente difesi accusando i nostri "padri" di non aver lasciato risorse per noi, oppure abbiamo cercato nel contesto della globalizzazione e della precarizzazione del lavoro le cause immutabili della nostra condizione.
Sappiamo da dove arriviamo, ma non sappiamo assolutamente dove andiamo: credo che sia stato questo il dramma che abbiamo interiorizzato senza contestarlo davvero e che ha accomunato molti di noi, senza voler generalizzare troppo.
Abbiamo studiato nell'illusione di poter "elevare" competenze e opportunità rispetto ai nostri genitori, ma davanti al bivio tra aspettare il nostro spazio o andarcene siamo stati precari per anni provando a fare il lavoro "dei nostri sogni", che in realtà non era altro che quello per cui una comunità intera ci aveva formato, mica roba così strana: in fondo a chi finisce un percorso di studi in medicina non si rimprovera di voler fare il medico e non altro, no?
Prendiamo me: dopo il diploma mi sono iscritta al corso di laurea in Conservazione dei Beni Culturali e mi sono innamorata della ricerca archeologica. Era la fine degli anni '90 ed era opinione comune che quel macro settore dovesse essere la nuova chiave di valorizzazione del patrimonio italiano (ecco, mi pento solo di una cosa rispetto alla mia formazione: avrei dovuto prendere una "banalissima" laurea in lettere classiche, senza cedere alle mode del bene culturale!); purtroppo sappiamo ancora oggi che gli investimenti pubblici nella conservazione, valorizzazione e studio del nostro patrimonio artistico, archeologico e paesaggistico non sono degni di un Paese della Vecchia Europa e che quindi il riconoscimento e la qualità del lavoro che si offre a chi opera in quei settori non è minimamente all'altezza delle competenze e professionalità necessarie. Per i primi anni ho accettato ogni genere di contratto di collaborazione e volontariato: ho fatto la gavetta, aspettando il momento giusto, i contatti, l'occasione, le relazioni e anche aspettando di essere pronta, ma le proposte decenti non arrivavano mai. C'era sempre un lavoro gratuito- ossimoro odioso!- da fare, o qualcuno da cui farsi conoscere...
In 10 anni di attività, durante e dopo la laurea, ho visto un solo concorso al Ministero dei Beni Culturali per posizioni che non fossero i cosiddetti custodi nei musei (poi esternalizzati pure quelli a società private al ribasso) e nessun progetto a lungo termine che non fosse legato a percorsi precari come la ricerca universitaria. Per questo a un certo punto ho dovuto far quadrare i mei conti, sapendo di non avere sponsor o famiglie bene alle spalle e come altri miei coetanei ho dovuto scegliere se andare via o restare.
Io sono una che resta, ho trovato un lavoro "sottomansionato" rispetto alla mia formazione e alla lunga ho deciso di lasciare andare un percorso e inventarne un altro, quello sindacale, dove peraltro si sono ripresentate alcune ricorrenze: il "tappo" generazionale, l'ubbidienza, la lesa maestà, la scarsa propensione a realizzare luoghi e occasioni liberi e orizzontali, non verticistici e autoritari. Ma per ogni ex giovane o giovane formato che abbandona il suo campo di azione e ricerca, non stiamo solo creando sacche di rabbia e frustrazione individuali, stiamo sprecando un patrimonio comune.
Rifiutati da istituzioni come università e sindacato, non ci resta che chiederci: cosa avremmo potuto fare? Cosa possiamo fare?
Io sono una che resta- in Italia, nel sindacato, al lavoro che ho trovato per mantenermi- e cerco nell'unica chiave della dimensione collettiva un mimimo di riposo: perchè allora faccio ancora così tanta fatica?
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