domenica 17 settembre 2017

Social dialogue

- Cosa dovrei dire a chi mi chiede cosa ne è di noi?

- Mi pare una questione fondamentale adesso...

- Certo che lo è: dirò che mi hai abbandonato!

Pur di non soffrire faremmo di tutto, anche adattarci a una quotidianità soffocante o raccontarci bugie rassicuranti per anni, garantendoci la sicurezza di stare meno peggio, ma per più tempo, in un tranquillo stillicidio quotidiano. Del resto l'eroe tragico di tradizione classica ha una grande sopportazione rispetto alle difficoltà quotidiane, bisogna solo resistere...

Ventimiglia, 2017
Più gravoso della paura di stare male è solo il giudizio degli altri che ci cruccia sopra ogni cosa: la rappresentazione sociale di noi e l'accettazione (troppo spesso, approvazione) delle nostre scelte.
Per molti di noi è un tabù inconfessabile ammettere di essere in balia dell'opinione degli altri, invece, tutto sommato, sappiamo benissimo che è normale, soprattutto se ammettiamo per verisimile il luogo comune del nostro essere animali sociali.
Spesso i pregiudizi si rivelano veritieri, o per lo meno molto probabilmente possibili: ecco perché sappiamo che le cose diventano reali solo quando vengono annunciate agli altri. Condivise. Raccontate.
Altrimenti si potrà sempre tornare indietro.

Secondo gli studi egittologici è il potere della parola performativa: la parola che si fa formula magica e rende reali gli elenchi infiniti dei libri dei morti; chi leggerà nel viaggio oltre la vita mondana avrà il potere di far realizzare le cose lasciate per essere dette.
In altro contesto si affronta più o meno lo stesso argomento quando in letteratura si parla di pragmatica linguistica: parole che accompagnano azioni, trasformandole in fatti nello stesso momento in cui vengono pronunciate.
La parola è da sempre un fenomeno sociale, in forma scritta ma soprattutto parlata.

E così le scelte della nostra esistenza si materializzano quasi sempre solo quando escono dalla loro origine intima, noi stessi o la nostra casa.
La condivisione sociale delle nostre parole porta con sé inevitabilmente anche la loro mutazione, attraverso le infinite interpretazioni cui saranno sottoposte. Forse è per provare a tornare a una dimensione che ci appartiene di più che a un certo punto cerchiamo di imporre l'interpretazione autentica e di ristabilire cosa davvero volevamo intendere: troppo tardi, sappiamo che è uno sforzo inutile, perché niente ormai ci appartiene più...
A volte è consolatorio, altre irritante, ma è praticamente impossibile sottrarsi a questo continuo circolo e circuito di parole e idee.
Persino nelle tragedie pretendiamo l'esclusiva del dolore e mal sopportiamo chi vuole aggiungere il suo ricordo alla nostra perdita: per esempio, Angela patisce che si parli di suo fratello, mancato lo scorso anno, e non sopporta addirittura che i figli di lui ne parlino pubblicamente dipingendo una persona diversa dalla propria percezione.

Pendoliamo tra interno ed esterno di noi per tutta la nostra vita, tra fatti e proiezione di fatti, parole, scelte, sentimenti nostri e degli altri, di ritorno dallo stesso percorso.

Una grandissima confusione, ma anche un patrimonio di ricchezza infinita e inestimabile.

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