venerdì 25 agosto 2017

Mitologia generazionale

Delos, 2010
Finalmente gli anni '90 sono diventati un cult: sono tornati di moda i jeans a vita alta in stile 501, le giacche bomber (che già odiavo allora), le t-shirt con le scritte e i marchi enormi, i collarini, il rossetto scuro, la riga in mezzo e i capelli lisci.
Nel 1999 ho compiuto 20 anni, quindi capirete che è proprio il mio decennio d'oro: l'adolescenza e poi la giovinezza più pura.

Ricordo bene tutto, ma specialmente la musica grunge, i concerti, gli amici musicisti (chi non ha mai avuto amici musicisti, diamine!), i nostri vestiti, poca TV (devo dire che non ero una grande appassionata, ne guardo di più ora, forse perché esco decisamente meno e lavoro molto di più) e la scuola.

Insomma la mia età dell'oro è diventata vintage, una parola che allora non avremmo mai usato e che anche adesso mi fa venire i brividi. Finalmente posso capire come si sentivano i miei genitori nel rivedere i vestiti della loro gioventù rivisitati decenni dopo, in versioni riviste, ma non originali e penso che invecchiare dev'essere questo: avere più ricordi che desideri. O meglio, i giovani vivono in un eterno presente, non hanno alcuna proiezione sul futuro, né tanto meno pensano troppo ai se e ai ma della loro storia personale, almeno mentre la vivono; invece quando si invecchia arrivano più facilmente i ripensamenti e i rimorsi, soprattutto rispetto alla nostra vita sentimentale: non mi è mai venuto in mente, per esempio, come poteva essere la storia tra me e L., se a quella serata di sagra paesana mi avesse salutato come immaginavo io, invece di scappare intimidito, oppure se il mio unico compagno di scuola fosse stato qualcosa di più di un amico.

I giovani vivono in una specie di dimensione di incanto in cui tutto sembra svolgersi secondo uno scorrere fluido: le cose vanno come devono andare, come in un incantesimo, senza che per forza vengano poste sotto analisi o a dubbi troppo a lungo. Forse invecchiare o crescere (credo sia la stessa cosa alla fin fine) è cogliere i momenti di cesura: quando l'incantesimo si spezza e la fluidità si rompe. Qual era la realtà? Quella precedente il disincanto oppure ciò che si presenta dopo? La realtà è incanto o disincanto?

La nostra cultura scolastica ci porta normalmente a dare ragione a Leopardi e al suo A se stesso, che resta una delle poesia che preferisco in assoluto sin dai tempi delle superiori:

'Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, nè di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
L'ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l'infinita vanità del tutto.'


In questa visione dell'esistenza, che trovo molto vicina alla mia sensibilità (bonjour tristesse!), la noia ha un ruolo centrale, con la sua posizione a metà componimento e in enjembement, così come compare già dall'inizio e in ripetizione il concetto del grande inganno.
Inganno e incanto sono parole simili per suono e significato, in fondo; a incanto si dà anche il significato di vendita grazie a un'etimologia provenzale che la fa derivare dalla domanda in quantum, per chiedere il prezzo di un oggetto.

Che prezzo ha non perdere mai l'incanto?

Nessun commento: