Ho frequentato la scuola superiore più bella del mondo: ripassarci davanti quando torno in Liguria mi provoca sempre un mix di sentimenti, per lo più splendide sensazioni e ricordi su cui predomina comunque una malinconia prepotente.
Il rapporto con le proprie radici, vicine o lontane che siano, è sempre difficile. I miei genitori, due meridionali trapiantati al Nord in cerca di lavoro e opportunità come tantissimi altri loro coetanei, non hanno ancora risolto il trauma dello sradicamento, ammesso che esitano davvero sia l'uno che l'altro. Michele, più incline alla nostalgia, d'estate non passa giorno che non racconti un episodio del suo passato "remoto" prima del trasferimento a Ventimiglia: parliamo degli anni '50- '60, un periodo davvero esiguo rispetto al mezzo secolo di vita trascorso altrove. Eppure, senza saperlo, Michele alimenta il proprio personalissimo mito dell'età dell'oro, un archetipo di felicità e primitività irripetibile: il paese in riva al mare, i pescatori, la famiglia, la povertà, la giovinezza, la terra.
Mi accorgo invece che il mio passato perfetto risiede nei tempi del liceo: mi capita di raccontare e ricordare il quinquennio delle superiori come un momento dilatato e felice. Anche i professori, che non vedo da molti anni e che seguo poco sui social, nella mia memoria risultano ammantati di un velo di eroismo.
Ciccio I., il professore di Italiano che tutti abbiamo amato sopra ogni cosa, è il protagonista di un film di Sorrentino, è Jep Gambardella: impeccabile nei completi di lino nei mesi caldi, dotato dell'eleganza innata che solo la Napoli rivoluzionaria e progressista può donare a essere umano.
La cultura e il piacere, la trasgressione e la scoperta, ma anche il pettegolezzo, il ritiro e l'isolamento.
Secondo la leggenda l'infedeltà "scolastica" di Ciccio I. era stata punita gravemente dalla consorte: da allora il professore si rivolgeva alle studentesse con il "lei" corredato dal cognome e dall'appellativo signorina, mentre solo per gli alunni era concesso il confidenziale tu col nome di battesimo: che invidia abbiamo provato per i compagni maschi, che ingiustizia! E che curiosità: chi era l'eroina, la studentessa che aveva rubato il cuore di Jep?
Agli antipodi la professoressa Maria R.: suora laica senza età, anziana già a 30 anni, nutrice di generazioni di virgulti del ginnasio ventimigliese. Cattolica fervente come testimoniava qualunque parte del suo corpo: perfino la sua cintura con scritta cubitale "Jerusalem", di cui tutti abbiamo riso a crepapelle, figuriamoci le parole e gli insegnamenti!
Di Maria R. ricordo il moralismo esasperato e le citazioni indimenticabili: l'odio per le discoteche dove andare a ballare con il diavolo; la cattiva gente da evitare, "la gente che gira di notte"; i racconti sulla studentessa brigatista, passata alla clandestinità con la colonna torinese, già individuabile nella sua deprecabile scelta di vita a causa delle presunte minigonne indossate a scuola.
Abbiamo studiato insieme a lei almeno due preghiere in greco, che ci venivano richieste nei corridoi durante l'intervallo ad anni di distanza: "Dimmi il 'patèr emòn', te lo ricordi o studiavi solo per il voto?", accompagnando sempre l'interrogatorio alla morsa potente della sua mano intorno a polsi o bicipiti.
Ho saputo pochi giorni fa che la Maria non è più di questo mondo: mi auguro che sia dove ha creduto fermamente di poter essere, a recitare fiumi di preghiere in greco antico.
Questa tensione verso il passato fa vivere meglio? Il rifugio nei ricordi così rielaborati rende più felici, oppure ci porta irrimediabilmente a essere decadenti e fuori contesto?
O ancora è soltanto una delle caratteristiche tipiche della vecchiaia?
Di sicuro si invecchia continuamente, sin da giovani.
E io ho studiato archeologia non per caso!
Il rapporto con le proprie radici, vicine o lontane che siano, è sempre difficile. I miei genitori, due meridionali trapiantati al Nord in cerca di lavoro e opportunità come tantissimi altri loro coetanei, non hanno ancora risolto il trauma dello sradicamento, ammesso che esitano davvero sia l'uno che l'altro. Michele, più incline alla nostalgia, d'estate non passa giorno che non racconti un episodio del suo passato "remoto" prima del trasferimento a Ventimiglia: parliamo degli anni '50- '60, un periodo davvero esiguo rispetto al mezzo secolo di vita trascorso altrove. Eppure, senza saperlo, Michele alimenta il proprio personalissimo mito dell'età dell'oro, un archetipo di felicità e primitività irripetibile: il paese in riva al mare, i pescatori, la famiglia, la povertà, la giovinezza, la terra.
Mi accorgo invece che il mio passato perfetto risiede nei tempi del liceo: mi capita di raccontare e ricordare il quinquennio delle superiori come un momento dilatato e felice. Anche i professori, che non vedo da molti anni e che seguo poco sui social, nella mia memoria risultano ammantati di un velo di eroismo.
Ciccio I., il professore di Italiano che tutti abbiamo amato sopra ogni cosa, è il protagonista di un film di Sorrentino, è Jep Gambardella: impeccabile nei completi di lino nei mesi caldi, dotato dell'eleganza innata che solo la Napoli rivoluzionaria e progressista può donare a essere umano.
La cultura e il piacere, la trasgressione e la scoperta, ma anche il pettegolezzo, il ritiro e l'isolamento.
Secondo la leggenda l'infedeltà "scolastica" di Ciccio I. era stata punita gravemente dalla consorte: da allora il professore si rivolgeva alle studentesse con il "lei" corredato dal cognome e dall'appellativo signorina, mentre solo per gli alunni era concesso il confidenziale tu col nome di battesimo: che invidia abbiamo provato per i compagni maschi, che ingiustizia! E che curiosità: chi era l'eroina, la studentessa che aveva rubato il cuore di Jep?
Agli antipodi la professoressa Maria R.: suora laica senza età, anziana già a 30 anni, nutrice di generazioni di virgulti del ginnasio ventimigliese. Cattolica fervente come testimoniava qualunque parte del suo corpo: perfino la sua cintura con scritta cubitale "Jerusalem", di cui tutti abbiamo riso a crepapelle, figuriamoci le parole e gli insegnamenti!
Di Maria R. ricordo il moralismo esasperato e le citazioni indimenticabili: l'odio per le discoteche dove andare a ballare con il diavolo; la cattiva gente da evitare, "la gente che gira di notte"; i racconti sulla studentessa brigatista, passata alla clandestinità con la colonna torinese, già individuabile nella sua deprecabile scelta di vita a causa delle presunte minigonne indossate a scuola.
Abbiamo studiato insieme a lei almeno due preghiere in greco, che ci venivano richieste nei corridoi durante l'intervallo ad anni di distanza: "Dimmi il 'patèr emòn', te lo ricordi o studiavi solo per il voto?", accompagnando sempre l'interrogatorio alla morsa potente della sua mano intorno a polsi o bicipiti.
Ho saputo pochi giorni fa che la Maria non è più di questo mondo: mi auguro che sia dove ha creduto fermamente di poter essere, a recitare fiumi di preghiere in greco antico.
Questa tensione verso il passato fa vivere meglio? Il rifugio nei ricordi così rielaborati rende più felici, oppure ci porta irrimediabilmente a essere decadenti e fuori contesto?
O ancora è soltanto una delle caratteristiche tipiche della vecchiaia?
Di sicuro si invecchia continuamente, sin da giovani.
E io ho studiato archeologia non per caso!
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