Ho il vizio di concentrarmi sulla parola, quella scritta, che leggo e scrivo, ma anche su quelle suonate nei discorsi: alcune si fissano nella mente come parole chiave. Ascolto selettivo? Probabile.
Le parole che scegliamo per esprimerci danno delle informazioni su di noi, sono tracce dei nostri pensieri e dei nostri valori, ma anche dei nostri pregiudizi e della cultura da cui arriviamo. Questo si sa.
Mi capita spesso di discutere animatamente di parole, perché non posso fare a meno di considerarle spie di convinzioni, ma anche di distrazioni e limiti che a volte ci sfuggono e non possiamo nascondere.
Questa sera, per esempio, ho ascoltato un padre descrivere la serata che domani passerà coi suoi bambini da solo- la mamma sarà fuori casa per un impegno con le altre mamme della classe di uno dei bimbi- con un'espressione interessante: "insomma, farò da baby sitter!".
So di essere molto di parte: così tanto dalla mia parte da amare anche i miei pregiudizi e infatti isolo e analizzo più frequentemente significanti e significati di parole che raccontano di donne, ruoli, genere...
Attirano la mia attenzione la scelta di un termine declinato al maschile piuttosto che al femminile, la comune lamentela dell'assenza nella nostra lingua del genere neutro, i sostantivi comuni che indicano alcune cariche e la solita vexata quaestio su cosa sia preferibile fare: meglio neologismi che urticano i tutori della lingua tradizionale dantesca, oppure è necessario aprire il riconoscimento della femminilità nelle parole? Tradizione (maschilista e paternalistica per lo più) o rottura? Discriminazione o conservazione?
Personalmente ritengo che se la lingua di Dante fosse comunque da considerarsi come volgare, possiamo tranquillamente lasciar stare i modelli italici puri e violentare la lingua alla sua funzione attuale.
Non molto tempo fa mi è capitato questo piccolo episodio che si presta bene all'esempio: durante una riunione ho sentito più volte apostrofare (da un relatore, uomo) una donna come "il segretario generale". La dissonanza così evidente col nome proprio femminile che seguiva quel titolo mi è rimasta nelle orecchie tutto il giorno; non me ne sono liberata nemmeno la sera a cena, tanto da dover commentare la cosa con alcuni dei presenti alla riunione. Ho espresso anche la causa del fastidio: la mia contrarietà all'uso di quel sostantivo maschile.
I miei interlocutori- tutti uomini- non avevano avuto la stessa sensazione negativa, semplicemente non ci avevano fatto caso. Uno di loro ha anche provato a prendere le parti del relatore e a giustificare la scelta di quella parola, specificando che il maschile si riferiva più propriamente alla carica e la sua eventuale declinazione al femminile sarebbe stata fuorviante e dispregiativa: la segretaria è ben altra cosa!
Questa spiegazione mi ha offeso anche di più: è proprio vero allora che nella cultura dominante esistono lavori per donne!
Anche senza voler fare la caccia alla spia, è troppo facile notare le nostre contraddizioni nel quotidiano: è un esercizio che vi consiglio di fare per riportare attenzione sul tema fondamentale della condizione femminile e provare a prendere coscienza di quanto siamo lontani dalla cultura che vorremmo fosse davvero patrimonio comune.
Soltanto dopo fatti eclatanti e scioccanti come quelli accaduti la notte di San Silvestro a Colonia contro centinaia di donne, media e opinione pubblica si degnano di occuparsi in modo plebiscitario di violenza di genere, disparità, discriminazioni e diritti.
Per un breve periodo e senza troppe pretese: la discussione dura lo spazio sempre più rosicato della vita di una notizia.
Meritiamo molto di più di questo.
Le parole sono importanti!
Le parole che scegliamo per esprimerci danno delle informazioni su di noi, sono tracce dei nostri pensieri e dei nostri valori, ma anche dei nostri pregiudizi e della cultura da cui arriviamo. Questo si sa.
Mi capita spesso di discutere animatamente di parole, perché non posso fare a meno di considerarle spie di convinzioni, ma anche di distrazioni e limiti che a volte ci sfuggono e non possiamo nascondere.
Questa sera, per esempio, ho ascoltato un padre descrivere la serata che domani passerà coi suoi bambini da solo- la mamma sarà fuori casa per un impegno con le altre mamme della classe di uno dei bimbi- con un'espressione interessante: "insomma, farò da baby sitter!".
So di essere molto di parte: così tanto dalla mia parte da amare anche i miei pregiudizi e infatti isolo e analizzo più frequentemente significanti e significati di parole che raccontano di donne, ruoli, genere...
Attirano la mia attenzione la scelta di un termine declinato al maschile piuttosto che al femminile, la comune lamentela dell'assenza nella nostra lingua del genere neutro, i sostantivi comuni che indicano alcune cariche e la solita vexata quaestio su cosa sia preferibile fare: meglio neologismi che urticano i tutori della lingua tradizionale dantesca, oppure è necessario aprire il riconoscimento della femminilità nelle parole? Tradizione (maschilista e paternalistica per lo più) o rottura? Discriminazione o conservazione?
Personalmente ritengo che se la lingua di Dante fosse comunque da considerarsi come volgare, possiamo tranquillamente lasciar stare i modelli italici puri e violentare la lingua alla sua funzione attuale.
Non molto tempo fa mi è capitato questo piccolo episodio che si presta bene all'esempio: durante una riunione ho sentito più volte apostrofare (da un relatore, uomo) una donna come "il segretario generale". La dissonanza così evidente col nome proprio femminile che seguiva quel titolo mi è rimasta nelle orecchie tutto il giorno; non me ne sono liberata nemmeno la sera a cena, tanto da dover commentare la cosa con alcuni dei presenti alla riunione. Ho espresso anche la causa del fastidio: la mia contrarietà all'uso di quel sostantivo maschile.
I miei interlocutori- tutti uomini- non avevano avuto la stessa sensazione negativa, semplicemente non ci avevano fatto caso. Uno di loro ha anche provato a prendere le parti del relatore e a giustificare la scelta di quella parola, specificando che il maschile si riferiva più propriamente alla carica e la sua eventuale declinazione al femminile sarebbe stata fuorviante e dispregiativa: la segretaria è ben altra cosa!
Questa spiegazione mi ha offeso anche di più: è proprio vero allora che nella cultura dominante esistono lavori per donne!
Anche senza voler fare la caccia alla spia, è troppo facile notare le nostre contraddizioni nel quotidiano: è un esercizio che vi consiglio di fare per riportare attenzione sul tema fondamentale della condizione femminile e provare a prendere coscienza di quanto siamo lontani dalla cultura che vorremmo fosse davvero patrimonio comune.
Soltanto dopo fatti eclatanti e scioccanti come quelli accaduti la notte di San Silvestro a Colonia contro centinaia di donne, media e opinione pubblica si degnano di occuparsi in modo plebiscitario di violenza di genere, disparità, discriminazioni e diritti.
Per un breve periodo e senza troppe pretese: la discussione dura lo spazio sempre più rosicato della vita di una notizia.
Meritiamo molto di più di questo.
Le parole sono importanti!

2 commenti:
Ciao Isa, nel tuo caso è stato un uomo a parlare del ruolo della donna al maschile. Ma quando sono le donne stesse?
Io dico che non siamo noi a violentare il linguaggio, ma il linguaggio che usa violenza alle donne. Come se non bastasse quella che subiamo ogni giorno...
E allora, dolcemente e delicatamente, ma pervicacemente (come piace dire a me), questo linguaggio lo dobbiamo cambiare. Perché con esso cambieremo la cultura maschilista e settaria di questo paese... Che ne dite?
Sì! Io sono d'accordo! Ovviamente ero ironica verso i tromboni dell'ortografia: qui di violenza ce n'è solo contro le donne!
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