giovedì 19 novembre 2015

Polifemo

A quattro anni avevo un pupazzo preferito: era un bambolotto con tutina da neonato azzurra, era piccolo e profumato, senza capelli e con gli occhi di plastica celesti. Non me ne separavo mai, lo portavo ovunque: a scuola, a fare la spesa con mia madre, a casa.


Un giorno di pioggia, indaffarata tra l'ombrello e lo zainetto della scuola materna, succede la tragedia, una delle prime che io ricordi nella vita: mi scivola inavvertitamente il mio pupetto e mi accorgo solo a casa di non averlo più.
La delusione cocente della perdita è stata bagnata da tutte le mie lacrime di allora: che tristezza perdere il gioco preferito!

Dopo qualche giorno un operaio del cantiere stradale vicino casa mi fece un regalo: aveva trovato un pupazzetto nelle pozzanghere vicino allo scavo dei tubi della fogna cui stava lavorando.

Era lui! Il mio pupazzo redivivo!

Il povero reduce aveva perso un occhietto: mia madre ridendo lo aveva chiamato Polifemo. Fino ad allora non gli avevo dato un nome e non capivo cosa ci fosse da ridere o che cosa significasse quel nome.
Ma tant'è, lo chiamai Polifemo.

Il rapporto tra vista e conoscenza mi avrebbe incuriosito solo molto tempo dopo, quando finalmente mi fu chiaro chi fosse Polifemo.
Scoprii anche che l'aver visto per la cultura che aveva partorito il ciclope equivalesse letteralmente a conoscere, sapere, ma che i più saggi tra i personaggi che quella stessa cultura aveva inventato nella letteratura erano i ciechi. Così saggi da vedere anche nel futuro.

Amavano i paradossi quegli autori e anche io. Forse perché aiutano a sradicare le certezze. O forse perché sono solo belli, i paradossi.

Belli di diversità.

Oggi il mio "pupazzo" preferito e inseparabile è un gatto: si chiama Willy e non ha gli occhi.

Più bello e saggio di lui non c'è nessuno.

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